Chez Mau – Pt. 2 - Fine

scritto da Nigthafter
Scritto Ieri • Pubblicato 6 ore fa • Revisionato 6 ore fa
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Cavalla giaceva totalmente scoperta, dormiva, senza coscienza di ciò che le stava intorno, immersa nel suo viaggio chimico-psichedelico.
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Testo: Chez Mau – Pt. 2 - Fine
di Nigthafter

Chez Mau – Pt. 2 - Fine

Si narrava che Unghia, quando giungeva all’orgasmo, si scatenasse come un gatto selvatico chiuso in un sacco: quelle unghie, affilate come rasoi, potevano ridurre in brandelli il sesso artigliato nella loro stretta oppure segnare il corpo del malcapitato con graffi che gli scavavano, crudelmente, fianchi e schiena durante l’amplesso.
Enea, tornato al mondo, diede segni di vita, rientrando a saltelli nelle mutande:
– Forza, Mau – disse – spicciati! Che qui si fa notte.
Anche Giulio cominciava ad annoiarsi dell’attesa:
– Dèh, Mau, è un’ora che ci tieni a menarcelo su ’sto divano. Siamo mica venuti fin qui per fare la claque a te che trombi. Datti ’na mossa.
– Esatto! – continuò Enea. – Dagli un taglio. Tanto quella non sente niente, è cotta come una pera.
– ... Perché cotta? – chiese Giulio.
– Perché si è fatta un “cristallino”: sono due ore che sta in acido. Manco sa dove si trova, se le chiedi.
A quel punto Mau, stanco dei solleciti, diede ancora due affondi svogliati di bacino, poi si sollevò imprecando:
– Ma porca zozza! Sempre così va a finire: organizzo le trombate, gli altri se le fanno, mentre io mi attacco regolarmente al cazzo!
Con una nuvola di frustrazione intorno al capo, si mise alla ricerca di mutande e pantaloni persi nel marasma.
Nel farlo, copriva con mano pudica la propria virilità indolenzita e barzotta, come temesse di perdere anche lei in quel casino.
– Ora state lì e mi aspettate, che devo pisciare – gridò.
Se ne uscì imprecando, con gli indumenti in mano.

La sua amarezza aveva un fondamento: infatti, il giovane soffriva di “orgasmo ritardato”, un disturbo meno noto della più famosa “ejaculatio praecox”, ma non meno fastidioso e invalidante.
Un disagio d’ordine psicologico ed emotivo che lo condannava a scopare fino a spellarsi il pisello, ma senza giungere a conclusione.
C’erano quelli che se ne venivano solo a parlare, e c’era lui, che non riusciva a venire neanche con un cannone alla tempia.
Il lato positivo era che per questo fosse ambito da molte ragazze.
Essendosi sparsa la voce, e stante che fosse anche belloccio, se lo contendevano: il suo problema rappresentava una vera garanzia di durata; di tempo della trombata ce n’era da avanzarne a volontà.
Alla fine, erano tutte contente, lui molto meno; sovente ci rimediava un’infiammazione al prepuzio e le gonadi dolenti per due giorni.
Per questo suo piccolo handicap, da buoni amici, non si mancava di sfotterlo quando lo si vedeva col muso lungo e l’aria afflitta per qualche ragione.
Subito tutti a dire: “Poveretto, come soffre... Chissà quanto c’avrà dato ieri sera”.
Mentre gli altri si scaldavano con gli strumenti, lui pensò che quel ragazzo mostrava uno sprezzo del pericolo prossimo al suicidio: si era avventurato, sguarnito di ogni protezione, nell’infido e venefico antro della Cavalla, sfidando impunemente la sua temibile “candidosi vaginale” e le più elementari norme igieniche.

Mentre, trasportato dal fumo, si cullava in questi pensieri profondi, ora che il sacco a pelo era stato aperto, poteva osservare la ragazza in tutta la sua nuda, indifesa interezza.
Cavalla giaceva totalmente scoperta, dormiva, senza coscienza di ciò che le stava intorno, immersa nel suo viaggio chimico-psichedelico.
Lui conosceva bene gli effetti e le sensazioni che generava quella sostanza: l’aveva provata pochi mesi prima insieme a Giulio; avevano assunto “triangoli di carta assorbente”, i quali per la prima mezz’ora non avevano sortito alcun effetto.
Al punto che avevano pensato di fare il culo a Ciano, il compagno di scuola che fungeva da pusher a tutto il liceo, spacciando fumo e altro all’occorrenza, perché reputavano gli avesse rifilato un bidone.
Ma l’acido era così: un momento prima ti sentivi perfettamente lucido, un attimo dopo ti arrivava il “flash”, violento come un treno in galleria.
Il fumo dello spino, dopo le prime volte, lo gestivi: eri fatto, ma restavi padrone del vapore.
L’LSD non dava scampo: comandava lui, portandoti dove voleva, che tu fossi d’accordo o meno.
Ricordava di aver passato l’intera notte senza chiudere occhio; le cose intorno apparivano surreali, dilatate, con colori sgargianti: psichedelici per l’appunto.
Era rimasto sul letto vestito, senza ficcarsi sotto le coperte, poggiato con le spalle alla parete della camera.
Non osava mettersi supino per il timore di non riuscire più a rialzarsi o a respirare.
Quando la visione delle cose diveniva insopportabile, chiudeva le palpebre ed entrava in una dimensione di veglia onirica.
Gli si presentavano alla mente visioni da quadro di Magritte o Dalì, entro i quali si aggirava, esplorandoli a volo d’uccello.
S’innalzava a quote che mozzavano il fiato, dalle quali precipitava, sgomento, in oscure voragini.
Le immagini si susseguivano in forma rapida e simbolica, come nei sogni: si trovò in una landa spoglia e arida come un deserto, attraversata da una profonda crepa del terreno, nella quale scorreva, a singhiozzo, un fiume denso come lava, ma fatto di un liquido cangiante e multicolore, come i fosfori impazziti d’un TV color.
Ci volle del tempo per comprendere che quel liquido, dal ritmo pulsante, non fosse altro che il suo sangue in circolo per le vene.
Osservava questo scenario angosciante cercando di combattere l’ansia con la ragione: si ripeteva che nulla di reale poteva nuocergli in quelle allucinazioni. Erano i suoi sogni, le sue fantasie e paure profonde a generare quelle visioni; l’acido le faceva solo emergere dalla coscienza.

Cavalla era rimasta in una posizione impudica, scosciata e oscena.
Lui si trovò a pensare che fosse di una bellezza tragica e struggente: come le donne raffigurate nelle “sanguigne” di Egon Schiele.
Il sesso esposto emergeva tra riccioli fitti, umidi e neri: vermiglio come un fiore tropicale.
Aveva addosso solo un ridotto reggiseno a balconcino di un tenue color malva; un seno pieno e materno, con la pelle di un candore luminoso.
Le labbra si schiudevano nel respiro; il movimento involontario faceva pensare a un bisbiglio muto: forse parlava a qualcuno nel sogno.
Aveva il volto d’un pallore lunare, il rossetto sbordato attorno alle labbra, rese tumide per i baci e i morsi dell’amplesso; l’eye-liner sugli occhi, sciolto dal sudore, dava al viso la fisionomia d’un clown stremato e dormiente.
Ma non faceva ridere, non era buffa, era triste.

Dormiva, in quel suo viaggio segreto, con un percorso intimo e diverso per ogni viaggiatore, lontana da tutto e da tutti, sola con il proprio mondo interiore, di cui nessuno di loro sapeva nulla.
Per tutti, Cavalla era solo un corpo: attraente per molti, repulsivo per altri,
forme invitanti e odori repellenti, sotto la sua perenne maschera di “cattiva ragazza”.
Di chi fosse realmente, di cosa ci fosse sotto la maschera, importava poco a tutti; la sola cosa importante era che continuasse a essere facile, a darsi per uno spino o un “cristallino”, come una bambina che plagi con un regalo di caramelle.
Era sufficiente quel ridicolo nomignolo, dato per dileggio, a ignorare che avesse anche un nome; nessuno pareva ricordare d’averne conosciuto uno di diverso.
Questo bastava per renderla marginale, la caricatura di una cosa.
Era facile pensarla così, non porsi domande, accettare la maschera che aveva assunto come scudo agli sguardi del mondo.
Si sentiva quasi in colpa a guardarla così: in quella posizione indecente e involontaria, incosciente e inerme davanti ai loro sguardi.
Sguardi che la sporcavano.

Guardare la sua nudità disarmata era come rubare qualcosa che non era stata offerta.
Si alzò dal divano, compì i passi che lo separavano dalla ragazza: si chinò, prese i lembi del sacco a pelo e la ricoprì come fosse una bimba che si era scoperta nel sonno.
Dagli altri vennero risatine e commenti salaci, che lui ignorò: non volle replicare, non ne aveva voglia, tanto non avrebbero capito.
Lei continuava a dormire, abbandonata al sogno colorato della sua mente, mentre in quei pensieri impastati dal fumo, lui sentiva di aver ridestato, dentro sé, qualcosa col sapore d’innocenza passata.
Qualcosa che non avvertiva più da tempo e credeva perduta.
C’erano anche altre due sensazioni, che lo sballo mescolava in emozioni tra loro incompatibili come l’acqua e l’olio: avvertiva una compassione cosmica per l’intera umanità, intorpidita dal sonno cieco del proprio cinismo, che ricordava da vicino l’amore universale raggiunto nel risveglio del “nirvana”.
La seconda, inconfessabile anche a lui stesso, era che, a dispetto d’una riluttanza dettata da fattori igienici, lui, Cavalla, la stava desiderando.
Si trovò a pensare, con una sorta di vergogna, che se fossero stati soli in quella stanza, puzza o no, si sarebbe chinato a baciarlo, quel fiore sgualcito e carnoso.

E in bocca gli parve di sentire il sapore caldo e sapido di quella carne d’angelo sfiorito.

(Fine)

Chez Mau – Pt. 2 - Fine testo di Nigthafter
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